Una pratica forense a doppio binario?

Quando nel 1985 mi laureai in giurisprudenza incappai nella riforma della pratica propedeutica allo svolgimento dell’esame di abilitazione alla professione di procuratore legale (L. 24 luglio 1985 n. 406): riforma che tra l’altro elevò (modificando l’art. 17 della Legge professionale forense) il periodo di tirocinio da uno a due anni. All’epoca si riteneva infatti che un solo anno di pratica professionale non fosse più sufficiente per poter affrontare, in modo serio, un esame selettivo qual era (a quei tempi a Roma la percentuale di coloro che superava la selezione era pari all’incirca al 10%) quello di abilitazione.

 

Ai giorni nostri, immolatisi sull’altare delle liberalizzazioni, e dove oramai proliferano abogados che vanno a conseguire il titolo in Spagna, mettendo qualche crocetta su ridicoli moduli a risposta multipla scritti in lingua italiana, si va controcorrente: il periodo è stato infatti ridotto a 18 mesi, parte dei quali peraltro trascorribili presso le Università (dove tutto si impara meno che ad esercitare professioni). La decisione di ridurre il periodo di praticantato, in disparte le critiche di merito che si potrebbero sollevare, avrebbe un senso se nel corso dell’anno si svolgesse più d’una procedura selettiva, il che ancora non è. Infatti il giovane che termina la pratica, a conclusione dell’anno e mezzo oggi previsto, resta comunque costretto ad attendere il mese di dicembre per poter sostenere l’esame. Il Parlamento si deve essere accorto della “svista” ed ha tentato di porvi rimedio (la Camera, all’interno di quella barzelletta che è oramai la discussione sul testo di riforma della legge professionale forense, ha approvato a fine ottobre un emendamento che contempla due sessioni annuali dell’esame di Stato: la cadenza (se il testo complessivo sarà approvato anche dal Senato, dove dovrà tornare prima che spiri il termine di durata dell’attuale Legislatura) sarà cioè semestrale anziché annuale. A detta di alcuni, peraltro (come o stesso estensore dell’emendamento approvato), non si doveva esser trattato di una svista ma di una estrinsecazione del potere corporativo della categoria.

 

Va detto, per amor di verità, che la decisione di riformare (anche) il tirocinio forense la si deve, in primis, al governo Berlusconi che – quale canto del cigno – nell’estate del 2011 emanò, nel quadro della seconda manovra economica dell’anno (D.L. n. 138, art. 3), una norma di legge che imponeva appunto di disciplinare ex novo pure la pratica forense (oltre che il sistema disciplinare degli Ordini professionali, ecc.).

 

Ad ogni modo, il tirocinio forense oggi è stato riformato. Tale profonda innovazione la si deve in primo luogo all’art. 9 comma 6 del D.L. 24 gennaio 2012, convertito con modificazioni dalla legge 24.3.2012, n. 27, che ha appunto ridotto la durata del tirocinio. Norma sprovvista di disciplina transitoria (evidentemente i “tecnici” in carica nell’attuale esecutivo mostrano anch’essi, come i politici di professione, qualche carenza nell’arte di saper scrivere le norme, tanto che qualcuno avrebbe scherzosamente affermato che al Ministero della giustizia avrebbero bisogno, ogni tanto, dell’assistenza di un avvocato…) che ha dato luogo immediatamente a contrastanti interpretazioni dello stesso Ministero in punto di retroattività. Ci si è posti il problema, cioè, se la disposizione valesse anche per coloro i quali, al momento di entrata in vigore della legge, già fossero “in corsa” nello svolgimento della pratica. Inizialmente un Ufficio assai vicino al Ministro aveva reso un parere di segno negativo, giungendo a dire che coloro i quali stavano effettuando la pratica avrebbero dovuto completarla nel biennio. Successivamente, lo stesso Ministero, con Circolare del 4 luglio 2012, ha detto esattamente il contrario, sostenendo che in difetto si sarebbe dato vita ad una ingiusta disparità di trattamento.

 

Il D.L. ha poi delegato il Governo ad approvare un D.P.R. che riempisse di contenuti tutte le altre disposizioni legislative dettate con riferimento alla pratica forense. Ed ecco che con DPR 7 agosto 2012 n. 137 viene approvato il regolamento di attuazione dei principi dettati dall’articolo 3, comma 5, del citato D.L. n. 138 del 2011 in materia di professioni regolamentate, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 189 del 14 agosto 2012 (l’ultimo comma si occupa, stavolta, di regolamentare la materia con disposizione ad efficacia transitoria). Il tirocinio per l’accesso alle professioni, in generale, è dunque oggi disciplinato dai 14 commi dell’art. 6 del regolamento in parola e, per quel che riguarda quello forense, dall’art. 10 (composto da sei commi). Una cui norma, per la verità, appare francamente incomprensibile (forse anche sfuggita all’attenzione delle masse), a meno di non voler pensare a male. Riguarda il tirocinio svolto presso Avvocature di Enti pubblici del quale, sino ad ora, il Legislatore ed il Governo si erano bellamente sempre infischiati (forse persino ignorandone l’esistenza). Ebbene, l’art. 10 comma 1 dispone che “il tirocinio può essere svolto presso l’Avvocatura dello Stato o presso l’ufficio legale di un ente pubblico o di ente privato autorizzato dal ministro della giustizia o presso un ufficio giudiziario, per non più di dodici mesi”. Dunque, nell’ambito dei 18 mesi obbligatori, la pratica, se è svolta presso l’Avvocatura pubblica, non può durare più di un anno, con conseguente obbligo per il relativo praticante di andarsi a cercare, esauriti i 12 mesi, un avvocato del libero foro per completare l’arco temporale necessario per ottenere il certificato di compiuta pratica.

 

Si tratta di una disposizione o inconcepibile, ovvero dettata da una chiara (ma immotivata) sfiducia per le Avvocature di Enti pubblici (in primis quella erariale). Posso testimoniare che il tirocinio forense svolto presso la “mia” Avvocatura (quella capitolina, per intenderci) è estremamente serio e rigoroso, perché il giovane viene seguito attentamente dal dominus, portato in udienza (da quelle davanti al Giudice di Pace sino a quelle che si svolgono dinanzi alle Magistrature superiori), fatto assistere a riunioni operative e di studio di altissimo livello (non foss’altro per le questioni che ivi vengono dibattute, ove si fa sempre discussione di interessi pubblici notevoli), impegnato a studiare cause di valore economico e/o sociale indiscusso, invitato a redigere atti defensionali (giudiziari e non) che di norma non capitano in mano ai suoi colleghi che svolgono la pratica presso studi legali “privati”. Orbene, costringere il praticante che sta svolgendo il tirocinio presso un’Avvocatura di Ente pubblico a dover completare il percorso formativo magari presso uno studio che si occupa esclusivamente di incidenti stradali o di opposizione a sanzioni elevate per violazione a norme del Codice stradale non ha alcun senso.

 

Trattandosi di un regolamento, il testo che cioè la contiene, non è dato sapere quale sia stata la mens legis che, all’interno delle sale di Via Arenula, ha ispirato una siffatta disposizione: e, dunque, mi astengo da ulteriori commenti. Ma continuo fermamente a pensare che si tratti di una norma penalizzante e che palesa un disfavore per un’esperienza – il tirocinio presso un Ufficio legale pubblico – oramai collaudata e certamente preziosa, sia per i giovani laureati in legge che per le stesse Amministrazioni pubbliche che li formano.

Rodolfo Murra

Rodolfo Murra vanta una lunga militanza, dopo aver svolto un breve periodo di libera professione, nell’Avvocatura pubblica. Ha diretto l’Avvocatura del Comune di Roma Capitale e quella dell’Acea, ed ora è il Capo dell’Avvocatura della Regione Lazio. Dottore di ricerca in diritto processuale civile è da molti anni docente presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali presso “La Sapienza”. Autore di vari contributi a carattere scientifico, ha anche diretto con profitto alcune strutture burocratiche (come l’Ufficio Condono Edilizio del Comune di Roma od il Municipio X). E’ stato Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma per quattro anni, ricoprendo anche la carica di Segretario.